La spiaggia di Nestore.

TheMaster1

Nel giorno delle nomination agli Oscar, qualche riflessione su due film dal destino diverso: Vita di Pi, candidato a 11 statuette, tra cui film, regia e sceneggiatura non originale, e The Master, che raccoglie solo 3 candidature, tutte tra gli attori.

A quattro anni dall’umiliazione subita dal suo Il Petroliere [distrutto agli Oscar 2008-2009 dall’inferiore e sopravvalutato Non è un paese per vecchi], Paul Thomas Anderson – uno dei due omonimi geni della cinematografia: l’altro è Wes, che quest’anno ha deliziato le platee con il bellissimo Moonrise Kingdom – imbastisce un’opera molto ambiziosa, difficile, e di grande interesse. The Master è una storia di demagogia e trasmigrazione dell’anima, di soggiogamento e di redenzione fallita. È la storia di Freddie Quell [straordinario Joaquin Phoenix], reduce, un po’ alcolizzato e un po’ autistico, della Seconda Guerra Mondiale che incappa, quasi per caso, nella Causa – setta scientista ispirata, pare, a Scientology – e al suo carismatico e affascinante maestro, Lancaster Dodd [Philip Seymour Hoffman che è un Proteo dalle mille facce]. Ancora una volta spazi aperti, apertissimi, profondissimi, ancora una volta un inizio dal montaggio vertiginoso, talmente originario da risultare in medias res, e ancora una volta le musiche aggressive e struggenti di Jonny Greenwood dei Radiohead. Per il resto Anderson inventa almeno un paio di scene geniali – il primo “ricordo” di Freddie e la danza al canto di “ramingo ramingo” – ma non riesce a liberarsi dallo spettro di un cinema troppo perfetto, troppo intelligente, troppo geniale e vero per potersi mostrare orgoglioso e lucente.

Dall’altro lato Ang Lee fa una cosa diametralmente opposta. Prende l’omonimo romanzo di culto di Yann Martel – che diventa un personaggio del film – definito infilmabile e, sulla scia del buonismo indianofilo di The Millionaire, si esprime in prima persona con il passato remoto delle grandi occasioni. Ad una prima parte descrittiva e fiabesca fa seguire un grande racconto cinematografico in cui tutte le perizie tecniche e visionarie possono prendere forma. È anche questa storia di soggiogamento, quello reciproco tra Pi, vispo e mnemonico autodidatta della sopravvivenza, e Richard Parker, tigre bengalese adulta dagli occhi umani che è anima grigia o forse soltanto simbolo e rassicurante autoaffermazione. Costretti a condividere una zattera dopo un naufragio incredibile – e incredibilmente filmato – si lasciano sopravvivere a vicenda, per paura e fame di pesci che volano. Anche qui ci sono almeno due sequenze bellissime: il passaggio notturno della balena e la prima apparizione della tigre, entrambe magnificate da un firmamento di luci buie e lumineggianti che hanno fatto accostare il film ad Avatar – e spiegano perché ne è stata tanto sbandierata la versione 3D. E anche qui, però, nello stilismo e nell’effusione di colori [splendida fotografia di Claudio Miranda] è come se mancasse l’emozione vera, che non sia suggerita dalla colonna sonora e dalle lacrime stesse dei personaggi.

Risultano essere due film con caratteri diametralmente opposti: nessun personaggio positivo in The Master, o almeno nessuno che abbia le sue ragioni, e solamente personaggi positivi in Vita di Pi, o almeno tutti che abbiano le loro ragioni. Non che sia propriamente un limite, ma dice molto sulle fortune opposte che hanno avuto i film. E non è sintomatico che finiscano entrambi su di una spiaggia, qualcuno ad accarezzare seni modellati nella sabbia, e qualcun altro a fare un salto in una giungla di un colore scomparso.

È il confine tra il mare e il mondo, il confine tra l’immaginazione e il sogno.

Vittorio Mollo

Lascia un commento